“Si può filmare una musica, a patto che sia ‘leggera’”, diceva Michel Chion.
Ecco: ne Il paese più vicino, al contrario, abbiamo provato a filmare Bruckner, e il compositore barocco, virtuoso della scordatura, Biber.
Ma l’intero film è alla disperata ricerca di un suono a cui abbandonarsi.
C’è in effetti una distanza che viene da prima che ogni film cominci. Nel nostro lavoro il contro-ascolto tra i due personaggi principali; uno parla e l’altro non-ascolta, era il nodo da cui partire. Quei due erano entrambi presenti nello stesso scenario: solo che accadeva come se i loro tempi non si intersecassero mai. Come fantasmi sensoriali, i loro corpi-sonori vanno infatti a vuoto: balbettano, canticchiano… è il ‘fondo’ del mondo che li sommerge.
Un fantasma sensoriale è qualcosa che cade sotto un solo senso, mentre potrebbe ‘significare’ appoggiandosi a due sensi. Se pensiamo allora che, con il suono multipista, attraverso l’allargamento della banda dinamica e la digitalizzazione della compressione, il suono ha acquisito una ‘presenza fisica’, dirompente, nell’audiovisione; avviene che, in realtà, quando crediamo di ‘vedere’, di fatto ‘audio-vediamo’. Il suono ha una capacità e un’elasticità espansa, tale da strutturare l’immagine in modo manipolatorio: vettorializza infatti il visivo molto spesso e non accade quasi mai l’opposto. Tranne che nell’aimantazione spaziale; dove – per contro – un oggetto che ci si aspetta avere una certa direzione e presenza sonora, per qualche ragione (mixing, effetti, spazializzazione ecc.) ne possiede un’altra, spesso disorientante rispetto alla normale strutturazione psicologica dello spettatore, riguardo allo spazio acustico.
Il paese più vicino aveva tuttavia a che fare anche con il ‘peso’ della parola. E la ‘parola’ è sempre ‘parola-teatro’. Parola come linea di fuga dall’immagine e dal suono. Totalmente dissonante. Nel film infatti a rigore non ci sono che monologhi o voci off, e queste ‘linee-di-parlato’ funzionano scollandosi radicalmente dalla mise-en-scène: un personaggio predica e si lamenta in continuazione, agisce come una ‘voce nel deserto’ (solo lo spettatore ‘sente’ però questa voce, non l’altro personaggio a cui invece è rivolta) e la protagonista femminile è separata in due assi: la sua immagine che non parla e la sua ‘parola’ che viene udita mentalmente dal suo interlocutore. Il teatro la fa da padrone quando ‘si parla’ e il teatro è per definizione il teatro-del-mondo; ma ne Il paese più vicino non si dà ‘mondo’ che per le cose.
L’estensione, la materiologia, la velocità, il volume, la temperatura del sonoro erano a questo punto il dilemma che avevamo davanti nella lavorazione.
Così come sul versante della cinematografia – dove la luce si incinera e gli aloni dilagano in ogni sfumatura -, Il paese più vicino si raggruma allora nelle texture rumoristiche: un intero popolo di suoni vagheggia la propria vita; frinire di insetti, schianti di accètta su ceppi di legno, caffettiere che gorgogliano, carte che s’increspano, gracchiare di rane, tonfi di passi sul fango e tutte le onde del vento, in infinite variazioni…
Il ‘fondo’ torbido è la ‘naturale’ intonazione del sound design de Il paese più vicino.
Con Roberto Passuti – fantastico tecnico del suono con cui abbiamo lavorato -, abbiamo cercato così di conferire una sonorità omogenea – non solo riguardo alla ‘continuità’ tecnico-diegetica – ma esattamente in relazione alla ‘pasta’ sonica di tutto il mixaggio audio, dove musiche, rumori d’ambiente, foley, parole, fossero ‘fusi’ in una curva tonale continua.
Abbandonarsi a una ‘lontananza’ era l’intenzione.
C’è quel suono che riposa nella terra e nell’aria… Il bordone ‘continuo’: il rumore fondamentale del mondo – quel ‘fondo’ sonoro che assorbe e intona tutti gli altri suoni -. Il suono dell’indistinto.
Flaubert parlava di ‘rumoreggiamento del vapore’ all’inizio de L’educazione sentimentale. E questa frequenza è sempre una massa complessa; non ha un’altezza ben precisa: è un cluster di sedimenti sonori che si sovappongono e ‘sminuzzano’, attraverso falde geologiche, la nostra percezione del mondo. Come un costante richiamo o riverbero alla porosità da cui proveniamo.
Lo abbiamo trovato nei take diretti. Lo abbiamo lavorato e impastato insieme al resto della partitura audio. Lo abbiamo reso una sorta di fuori-campo sonoro ‘attivo’, al posto del mito del ‘montaggio verticale’, di cui favoleggiavano Ėjzenštejn e Pudovkin.
Il silenzio non può estinguere questa radiazione. Cage lo sapeva quando uscì dalla sua esperienza nella camera an-ecoica… come un ronzìo basso, molto vicina alla ridondanza del rumore bianco ma comunque separata, questa eco raddoppia il segnale e ‘tira’ tutti gli altri suoni in basso, verso di sé, accogliendoli in un ‘campo’, in un palinsesto, da cui si estroflettono e rimbalzano indietro.