Quello che scarta e divarica all’interno di un segno cinematografico oggi, secondo noi, è il formalismo di una ‘rappresentazione’ che cerca di dissimulare e di contestare il proprio principio, per smarcarsi e creare un’oltranza; una cis o trans-territorialità.
Il meccanismo di un’immagine è il meccanismo della luce e del buio da cui proviene. Un film vive di questa dimensione foto-sensibile (contrappuntata al suono). Ed è qui che essenzialmente costruisce la sua resistenza alla significazione.
Nel nostro ultimo film Il paese più vicino, la luce è una luce di cenere. Perché è la luce di un mondo in qualche modo morto. Morto per l’uomo. E forse più vivo in sé, per sé. Ed è una luce che rifiuta il proprio senso di essere ‘luminosa’ e si vuole ‘nera’, livida anche nel suo spettro più vibrante.
È la luce che ci sembra di vedere oggi e che non possiamo ignorare: è lì ed è esattamente sul nostro sentiero.
La riproduzione della realtà è già un manierismo e ‘stampare’ la luce di un mondo morto, si riferisce allora a stampare questa territorialità che non vuole essere descritta; quest’oltranza che apre.
Un’oscurità – un’altra possibilità a scavare intensamente – che non desidera più. Perché non desidera più la deduzione del mondo e anzi: quella potenza che discende dalla luce, che si dipana in essa per il fatto che il mondo avviene, vuole solo raggrumarsi in se stessa.
La luce è quello spazio morto che sta oltre: un paese vicino, come nel racconto di Kafka (Das nächste Dorf), a cui il film si ispira.
Se nel racconto si cerca infatti di arrivare in un altro luogo – il protagonista vuole trovare appunto un altro paese, un’altra terra -, allora quel territorio è per l’immagine un acquario ‘velato’, smorto, glauco; ma al postutto trasparente: un vedere scipito attraverso strati di aria, volùte di foschia.
Forse il mondo ha smesso semplicemente di avvenire. O la luce non ha più bisogno del mondo. Così come lo spazio non ha più bisogno del mondo e gli resiste.
Per fotografare questa dissimulazione, abbiamo scelto un formalismo; cioè una sorta di feticismo.
Un procedimento di stampa fotografica ottocentesco: il cosiddetto Colour Carbon Process – stampa al carbone -; laborioso processo di separazione e riassemblaggio di strati saturati di pigmenti in gelatina, resa sensibile alla luce. Vale a dire innanzitutto pigmenti puri anziché tinte diluite: elemento che assicura una gamma tonale molto più ampia, dalla presenza e dalla fisicità quasi palpabili. La vibrazione cromatica di questi pigmenti – se vogliamo – si può paragonare alla pittura di pigmentazione quasi pura di Rothko, che non usava che in minima parte leganti o collanti, per cui i cristalli di pigmenti giacciono depositati sulla tela, liberi di riflettere la luce nella loro quasi intera tridimensionalità (non sommersa nella colla).
I pigmenti del Carbon Process hanno questa prerogativa di opacizzare le alte luci e di renderle più ‘fini’, più ‘vicine’, traslucide e seriche, mentre sull’altro versante lasciano scintillare le ombre più scure e profonde. Facendo opportune prove, abbiamo pensato di replicare questa sensazione di presenza tridimensionale attraverso questo modello di colore, ma applicato al digitale. Che è il linguaggio con cui parla il nostro tempo, volenti o nolenti.
La sfida in termini di riprese era allora quella di ottenere un negativo ‘old- school’, come livello di esposizione e illuminazione, per poi poterlo trasformare in sviluppo attraverso un modello cromatico basato sulla stampa al carbone.
Il ‘naturalismo’ di questo procedimento – se vogliamo tecnologicamente antico – non solo è un distillato ideologico sincero ma è anche una sorta di desistenza che la luce è ammessa a incarnare.
Si potrebbe quasi pensare alla stampa al carbone come al contrario della normale stampa fotografica: se questa infatti esalta i cristalli d’argento nel mare della superficie colloidale, quella al carbone li fa brillare da lontano, in un deserto privo di eccipiente, asciugato quasi interamente dalla colla. Pigmenti saldati da soli. Immagini solitarie.
Nel nostro film si trattava di piegare e sagomare la stampa digitale dell’immagine, ricercando l’essenza di questa vecchia tecnica.
Abbiamo fotografato diversi Test Charts, con diverse intensità luminose; usando prima camere a pellicola (con diversi stock) e poi la camera digitale BlackMagic con cui avremmo girato il film, per poter verificare dove le diverse camere clippavano. Così abbiamo potuto analizzare i negativi dal vero (scannerizzati), senza pregiudizi né pretesti teoretici di alcun genere. Abbiamo creato un modello di colore provando ancora differenti processi di trasformazione della cromìa digitale e differenti spazi cromatici e di gamut. Come riferimento abbiamo usato un LAD (densità di riferimento) testata al 18% di grigio neutro (25-25-25 in valori RGB) e successivamente settato l’esposizione a quello che ci sembrava appropriato per il mood visivo del film; che doveva essere
desertico, cupo, depresso, post-apocalittico. Non abbiamo seguito la normale luminosità d’ambiente, cioè la ratio di luce supposta dal settaggio standard del LAD 18% o del REC709; ma abbiamo ‘spinto’ in direzione di un’immagine ‘opaca’ – perfettamente esperibile solo in una stanza completamente buia -, brunita, scura, dalle alte luci ‘incinerite’; i cui ‘pigmenti-pixels’ sono appunto riflettenti e dolcemente sfumati. La desaturazione e gli alti contrasti, con neri ricchi e ad un tempo molti dettagli nelle ombre, sarebbe stata preservata dalla curva tonale che abbiamo costruito già a partire dall’esposizione e più tardi in postproduzione, all’interno dello spazio colore in ACES (che preserva più propriamente l’ampio intervallo dinamico del negativo digitale).
Nel film ci sono queste pozze di verdi, marroni, terre, seppiati, incarnati pallidi… tutti ‘marcati’ dalla ‘carbonificazione’, come nella fotografia di Josef Sudek o Edward Steichen, a nostro piacimento corretta da un certo effetto ‘faded’, cioé da quella livrea stinta e smerigliata di luminanza, che funge da semitono di scivolamento tra ombre e luci vivide.
Già nella definizione della pipeline produttiva, la nostra tavolozza dei colori era impostata per interagire con elementi ‘increspati’. I muri della casa in cui abbiamo girato gli interni, per esempio, erano ricchi di textura; sporchi e pieni di detriti, fuliggine e patina, anneriti dalla polvere o dal fumo, con parecchia polluzione atmosferica d’ambiente, così come molti esterni erano nebbiosi o con luci diffuse. Abbiamo preferito girare a 400ISO di rapidità; offuscando gli interni a 20Watt di luce (quasi sempre bounced e diffusi con muslin), usando solo candele in quanto a luci di scena (nell’intreccio l’elettricità è stata azzerata da una catastrofe). Come lenti sono stati impiegati gli SLR Magic, con adattatori anamorfici, quasi sempre a T2.4-T2.8 – cioè completamente aperti -. Sottoesponendo leggermente, queste lenti ultranitide, opportunamente filtrate con diffusori e Tiffen Pro Mist, creano quasi una scia di bagliore e lustro sugli oggetti in movimento, tale per cui
un personaggio che attraversa una stanza, se seguito in pan, solca una specie di aura nella profondità di campo. Gli interni inoltre erano spesso ‘lavorati’ con squarci e ‘alberature’ di luce strutturate (illuminati con Fresnel): fasci di pula luminosa che s’insinuano dalle finestre e creano – nell’ambiente saturato di haze – un abbagliamento velato…
Gli esterni erano invece l’ambiente rurale, i campi, le montagne, i boschi, quei non-luoghi industriali abbandonati, un fienile, un castello diruto…
Spazi che la luce infiltrava o in cui la radiazione premeva strato su strato, per resistere. Il colore di questo mondo è un croceo pallido, con sottotoni malvacei e grigi, che traccia lo svanire delle forme… talvolta sono stati usati filtri a vignette che sfocano l’inquadratura ai lati, per imbastire una profondità di campo ambigua, come nella sfocatura di Gerhard Richter.
In aggiunta – per creare halation sull’immagine; cioè quel sottile alone che riduce i contrasti e permea le alte luci di diffusione – abbiamo usato filtri Ultra-Cons. Gli esterni più luminosi (del finale del film) sono stati girati al contrario con una leggera sovraesposizione a T16, con filtri di densità neutra, lasciando che gli obiettivi fossero invasi da riflessioni interne e da diffrazioni di luce, insieme a bokeh, streaks e immagini fantasma secondarie.
Lo spazio è quella ‘porosità’ desaturata, quell’erosione di sabbia che intride la flocculazione luminosa. Un’incinerazione.
Come se alla fine il film non potesse essere ‘fissato’ che a un supporto scuro. Carbonico o siliceo che fosse.